#SENZAGIRIDIBOA

#SENZAGIRIDIBOA

Sul caso Ward

Di Giulia Cerino

Leggo con interesse e attenzione le parole di Clarissa Ward inviata della #cnn all estero intervistata da La Stampa. L’inviata è andata in Ucraina nel mezzo delle macerie, incinta di cinque mesi e sui social l’hanno chi insultata, chi osannata. In un mondo normale, non ci soffermeremmo su tale immagine con stupore o disprezzo come hanno fatto in molti. In un mondo come lo vorrei io, la #Ward non dovrebbe nemmeno stare a spiegare i suoi perché. In un mondo normale la sua sarebbe un’immagine normale ma non lo è. 
 
Allora colgo l’occasione per parlare di un tema che oggi è evidentemente aperto e tocca, ha toccato e toccherà molte corrispondenti e inviate come alcune di noi, di #senzagiridiboa. Capisco quello che dice la #Ward e anzi condivido in parte le sue riflessioni su lavoro e maternità. Conosco bene quella forbice nella quale si muove l’inviata della #CNN: tra il disagio e il dolore di lasciare a casa gli affetti, quel sentimento di maggiore vulnerabilità e sconforto per non riuscire da lontano a tenere sotto controllo la vita privata. Il senso di colpa, il giudizio degli altri che ti chiedono come ti sia passato per la testa, i figli a casa e tu? E poi di contro quella passionaccia che ti porta sul campo ma anche quel senso del dovere che caratterizza il lavoro giornalistico, quel senso di responsabilità nei confronti del ruolo: sei un’inviata, devi andare sennò cosa penseranno di te? Devi andare, sennò sei meno prestigiosa e perdi punti in classifica o vuoi andare perché davvero te la senti, perché ti va e basta? Ecco questo è il primo punto, cruciale. Al netto del fatto che probabilmente la Ward ha un contratto di lavoro con tutele mentre molte giornaliste non ce l’hanno e quindi pure volendo al fronte non ci vanno, penso che in questo caso il dibattito sia anche di altra natura. Capisco cosa intende la Ward quando dice che il nostro lavoro da inviate presuppone che si debba a volte stringere i denti, partire anche quando siamo emotivamente deboli. Ma su un punto rifletto: la scelta di partire incinta è davvero libera o come dice la Ward ‘c è un prezzo da pagare per fare il nostro lavoro?’ Forse sì, ma quale? Ecco, la libertà di andare in zone di guerra incinta è sacrosanta ma appunto deve essere una libera scelta, non un prezzo da pagare perché dobbiamo dimostrarci toste. Toste lo siamo se lo siamo, anche se rimaniamo a casa. Perché altrimenti chi sceglile liberamente di non andare in guerra è un’inviata meno valida di chi invece ci va? Allora dico: io stessa ho scelto (forse solo parzialmente in modo libero) di andare in trasferta incinta, entrambe le volte. Ma la scelta di una singola inviata non può e non deve creare un precedente negativo per chi invece sceglie di non partire per il fronte incinta. In altre parole, facciamo attenzione perché non deve passare il messaggio che siamo tutte uguali. Una valida inviata resta valida anche se sceglie di non andare al fonte incinta. È d’altra parte una madre resta una buona madre, se lo è davvero, anche se sceglie di andare al fronte incinta. Ecco, penso che la chiave sia tutta lì: nella libera scelta e nella saggezza dei nostri direttori e direttrici, editori ed editrici nel capire che in entrambi i casi è necessario che venga sostenuta la scelta della singola inviata. Altrimenti stiamo facendo un passo indietro: stiamo passando il messaggio che le donne emancipate oggi debbano per forza dimostrare di essere capaci di tutto, di andare in guerra incinte. E questo non sarebbe un successo per il sesso femminile ma una sconfitta perché torniamo a quel modello che ci vuole wonder women. Che poi noi wonder women lo siamo già, ma solo se ognuna può esserlo a modo suo. Senzagiridiboa (foto apparsa su People)